«Uma filosofia que não inclua a possibilidade de fazer adivinhações com grãos de café e não consiga explicar isso, não pode ser uma verdadeira filosofia» (G. Scholem) |
L’algoritmo eteronimo e neopagano della nostra modernità (Prefazione)
[«L’algoritmo eteronimo e neopagano della nostra Modernità», «Prefazione» ao livro de Luigi Orlotti, Il teatro degli eteronimi: L’estetica neopagana di Fernando Pessoa, Milano, Mimesis,2006, pp. 11-15.]
Prefazione
Fernando Pessoa è senza dubbio il più grande poeta portoghese del XX secolo e uno dei maggiori della Modernità. Tuttavia, sebbene sia noto essenzialmente come poeta ‘superiore’, tutti i suoi scritti, compresi i testi in prosa, sia quelli di finzione sia i saggi, sviluppano nell’insieme una visione in cui vengono affrontate le principali questioni della modernità europea, in particolare riguardo al tema dello ‘scrivere sulla scrittura’ e riguardo alla crisi del soggetto nelle sue diverse dimensioni. Certamente è proprio in quest’ultimo ambito che si avverte la sua più grande genialità con la creazione/costruzione mitica1 del theatrum mundi eteronimico (una sorta di ‘frammentazione sistematica’) e delle sue ‘figure-dispositivo’, processo equiparabile a una cosmogonia dove, come scrive in un saggio a firma del suo eteronimo filosofo António Mora, «gli dèi sono il primo grado dell’astrazione» o meglio «sono le idee umane in passaggio dalle nozioni concrete alle idee astratte». Gli eteronimi di Pessoa sono l’eco verbale e inquieto della ‘coscienza umana’ e della soggettività in espansione (quali esercizio e work in progress): per usare un’allegoria mitologica potremmo dire la voce di Hermes, simile a quella che udiamo nel resto d’Europa attraverso gli scritti di Mann, Joyce, Musil, Kafka, Beckett, Pirandello e perfino di Nietzsche e Wittgenstein.
Prendiamo spunto da Antonio Mora per esempio, l’eteronimo filosofo apparso per la prima volta nel racconto ‘clinico’ Na Casa de Saude de Cascaes, che ha come scopo quello di creare una nuova religione legata alla primitività greca, partendo dalla diagnosi della malattia dell’uomo moderno (la decadenza originata dal «cristismo») e pervenendo alla ripaganizzazione della tradizione giudaico-cristiana. Questa ripaganizzazione ha per fondamento tre presupposti essenziali: 1) assumere «la pluralità degli dèi come essenza della mitologia»; 2) adottare «la creazione come ideale umano»; 3) considerare «la concezione dell’universo essenziale come fenomeno essenzialmente oggettivo».
(...)
Fernando Pessoa è stato uno degli autori che ha meglio collocato il problema della ‘superficie’ e dell’ ‘illusione’ quale processo demiurgico della creatività. Ancora oggi, nel tempo della cultura della simulazione, della realtà virtuale, delle reti cibernetiche popolate di cyborgs e di ‘corpi-protesi’, tempo nel quale la nostra soggettività si mette in gioco sempre più sugli schermi, diventa urgente conoscere il pensiero e l’opera di Pessoa, affinché ci aiutino a trovare quelle vie d’uscita per la crisi del soggetto che continua a riguardarci. Infatti, lo sviluppo delle tecnologie digitali e la complessità dei sistemi computazionali e algoritmici ha moltiplicato la frammentazione (eteronimica), corrispondente all’immersione e alla proiezione (quasi fino alla diluizione) nelle protesi della simulazione. Uno degli esempi di ciò che vengo a sostenere è ben mostrato nel film ExistenZ (1999) di Cronenberg, dove la relazione (mediata) tra corpo (organico) e interfaccia (ludica) frantuma le frontiere tra reale e onirico, fuori e dentro. Qui abbiamo un caso in cui, paradossalmente, come direbbe Borges, la mappa copre lo stesso territorio e il principio di realtà scompare. Allo stesso modo oggi, l’industria ludica in generale e dei videogiochi in particolare mette a disposizione l’assunzione di varie identità: si può essere un dio buono o cattivo (Black & White), un politico (Republic: The Revolution), un ladro e/o un assassino (Grand Theft Auto III), un eroe (Rising Sun), un lupo o un mostro di lava (Dungeon Siege II) in una molteplicità eteronimica degna del suo demiurgo. Il tutto in un sistema ‘aperto’, sperimentando faccia a faccia, attraverso internet, la possibilità del confronto multiplo (MUD’s). Insomma, come annuncia chiaramente uno dei messaggi di lancio della PlayStation 2, il giocatore deve solo avviarsi al supermercato delle identità per scegliere la testa che vuole porre in cima alle spalle. E ci sarà qualcosa di più esagerato che il trasformarci in un dio, internamente e progettualmente diluito nel noi-stessi-altro dell’immagine televisiva? Sembra chiaro: la realtà virtuale e la digitalizzazione del mondo ci collocano al centro del ‘parco delle diversità ontologiche’!
Il libro di Luigi Orlotti, che ora si presenta con il titolo Il teatro degli eteronimi. Il neopaganesimo estetico di Fernando Pessoa e che introduco al lettore italiano, parte da una tesi di laurea in Filosofia la cui realizzazione ho seguito da vicino. Il testo percorre, con rigore bibliografico, tutti i sentieri ermeneutici che ho cercato brevissimamente di delineare e nel labirinto della complessità del pensiero e dell’opera pessoana, in cui il Minotauro si nasconde a ogni angolo, tenta di afferrare quel filo di Arianna filosofico che gli serva da supporto per la ricerca di ‘uscite’ teoretiche al dramma neopagano. E l’incipit del viaggio non poteva che cominciare con la descrizione di una ‘biografia fittizia’ in cui l’eidos e le teorie cominciano a sostituirsi al movimento dell’azione, poiché l’azione è inversamente proporzionale al pensiero.
Con questo saggio, frutto di lunghe discussioni pessoane che abbiamo intrattenuto negli ultimi anni, Luigi Orlotti giunge a presentare al pubblico italiano una prospettiva generale, rigorosamente documentata, del contesto universale in cui opera questo grande poeta-pensatore portoghese che è stato, ed è, Fernando Pessoa.
(Gennaio/2006)